Maurizio Fiorino

Il quadratino grigio

Intervento al Salone Internazionale del Libro di Torino, 2024

“Nato a Bologna”. Dovrei chiamarlo così, questo intervento, visto che sulla biografia della mia primissima pubblicazione su una rivista feci scrivere al redattore: Maurizio Fiorino è nato a Bologna. Ora, per arrivare a questo punto, e soprattutto per superarlo, devo ritornare indietro di diciannove anni, ovvero a quando sono nato per davvero, ma a Crotone, e questa è una verità. Di quando ero bambino non ho tanti ricordi se non suggestioni che forse la mia mente ha ricreato più avanti, ma poco importa. Ricordo perciò i colori, sopra ogni cosa, perché nascere in Calabria, per me, è stata soprattutto una questione di colori. Accesi, fortissimi, accecanti. Ricordo la macelleria di mio padre, la guardavo dal mare – e questo lo ricordo solo perché anni dopo, dal mare, ho scattato una fotografia. Ricordo quando un uomo mi ha chiuso nella sua macchina e si è masturbato sopra di me. È lo stesso ragazzo, ma in realtà credo avesse l’età che ho io adesso, a cui ho dato il mio primo bacio, e non perché abbia scelto io di darglielo. 


Ricordo anche una cosa che avevo dimenticato, ma che mi è tornata in mente da adulto, ed è un scena che vorrei tanto scrivere in un libro ma che ancora non riesco a vedere bene. Avrei dovuto fare un tema – credo fossi in terza o quarta elementare. Sono cresciuto nella macelleria di mio padre e spesso facevo i compiti lì. Quel pomeriggio, chiesi a lui cosa avessi potuto descrivere, e lui mi disse: «la piastrella della macelleria». Il negozio era tutto bianco, e le pareti ricoperte di mattonelle lucide e prevalentemente bianche. Dico prevalentemente poiché in realtà c’erano delle sottilissime linee nere lungo il perimetro della piastrella. E scrissi questo, nel tema. Che erano bianche con delle linee nere. Quando lo feci leggere a mio padre, lui mi guardò, sorrise, e mi disse: non è vero, non sono solo bianche e nere, guardale bene. Mi avvicinai a una mattonella e mi misi a ridere anche io. Le vedevo bianche con delle linee nere, punto. Fu lui, dopo – giuro – una decina di minuti, a farmi notare che, ad ogni angolo della mattonella, c’erano dei piccoli quadratini grigi che univano le linee. Io non avevo visto quel grigio, e non perché io sia daltonico, ma proprio non l’avevo visto finché non me l’ha mostrato lui. Per me era tutto o bianco o nero.


Sono cresciuto davanti allo scheletro arrugginito della Pertusola. Un ammasso di vecchie fabbriche che, per sentito dire, avevano ucciso diverse persone. Storie di veleni e di elementi tossici. Il tema del doppio a me tanto caro credo sia nato lì, o meglio dalle storie che sentivo raccontare a voce alta da tutti. Magna Grecia, atleti fortissimi, un passato glorioso: io non riuscivo a vedere nulla di tutto ciò, se non, qualche volta, nei miei sogni erotici. Come si fa, mi sono chiesto da adulto, a vivere in una terra esistita sui libri di storia, ma, ai miei occhi, inesistente? Come tanti, a prescindere dal mio essere nato in una città doppia, sospesa tra passato glorioso e un presente che a me tutto sembrava, fuorché glorioso, ho vissuto una doppia esistenza in cui le cose che, in quel momento, mi remavano contro, mi hanno infine salvato: la mia identità e l’arte. 


Non era, Crotone, un posto dove vivere serenamente quella che io considero non solo una passione, ma la missione di un’esistenza: l’arte, per l’appunto. Non avevo nessuno con cui parlarne, semplicemente, e i miei ultimi anni lì sono stati i peggiori della mia vita. Mi sono diplomato in un giorno caldissimo di luglio e ad agosto ero già a Bologna. In quel periodo ero mosso da un’irrequietezza che oggi, se ci penso, mi chiedo come abbia fatto a non farmi male. Ho cambiato innumerevoli facoltà e credo di aver dato cinque esami in tre anni, poi me ne sono andato a vivere a New York a studiare fotografia. È stata, in maniera del tutto inaspettata, una delle due persone che più hanno condizionato la mia vita a dirmi, semplicemente: se sei felice, rimani lì. Mio padre. Mia madre, ancora oggi, mi dice che quello è stato il giorno peggiore della sua vita, e che mentre il mio aereo decollava, le piangeva tenendosi stretta il mio peluche. 


A New York ero finalmente io e per quanto creda che nascere in un posto ti identifichi, credo anche di essere venuto al mondo in quel momento. O meglio, la persona che vi sta parlando adesso, a proposito di doppi, è quella persona rinata in un appartamento di Chinatown. Volevo addirittura cambiare nome e cognome, a un certo punto. Patti Smith dice che New York è la città che più l’ha formata e, allo stesso tempo, deformata, e io sono d’accordo con lei. La mia deformazione è iniziata una mattina di un periodo in cui lavoravo sedici ore al giorno in una pizzeria dell’East Village. Iniziavo il mio turno alle dieci del mattino e terminavo a notte fonda. Ero sempre senza un soldo perché i soldi mi è sempre piaciuto spenderli, e una mattina, prima del lavoro, stavo facendo il bucato in una lavanderia a gettoni. Dal nulla, un tizio, mi ha offerto duecento dollari per andare a letto con lui. Guadagnavo quei soldi in due, tre giorni di lavoro. Ero molto bello, era estate e indossavo una canotta e un paio di pantaloncini da palestra senza slip sotto perché erano tutti in lavatrice. Credo di aver riconosciuto la stessa molestia che ho subito da bambino e ho capito che il trauma non si può cancellare. Allora è meglio farci su dei soldi. Quella mattina, ovviamente, ho lasciato il mio lavoro e ho cominciato il viaggio più bello che potessi mai fare, quello verso il bambino che ero stato, e che avevo lasciato a Crotone.


Non è stato un viaggio leggero. Mi sono schiantato diverse volte e ho scritto quegli anni nel mio ultimo romanzo, Autoritratto newyorkese. Ho attraversato un dolcissimo inferno di violenza, una dipendenza sessuale, tante botte, ma sono stati anche, e so che tanta gente stenta a crederci, gli anni più spassosi e liberi della mia vita. Soprattutto, so che tutto ciò che ho fatto era necessario alla mia missione. Che è e rimarrà per sempre l’arte, come dicevo.  A tal proposito, un giorno – era il 2011 o forse il 2012 – sono andato al Met, il mio museo preferito di New York, forse del mondo. C’ero già stato diverse volte ma quel giorno, non so perché, accadde una evento simile a quello che era accaduto durante quel tema alle elementari, il tema della piastrella. Vidi il quadratino grigio. Il grigio, quel giorno, era “Kroton” scritto su una mappa dell’antica Grecia. Non ci avevo mai fatto caso, eppure ero passato di lì no so quante volte. Mi addentrai in quella sezione del museo e quello che accadde dopo, io a parole, ancora, non riesco a descriverlo. Le statue greche, quelle gambe, quei culi, quelle braccia, mi parlavano. C’ero io, o meglio c’era una parte di me che avevo lasciato a casa, c’era tutto il sesso che stavo facendo, c’era il bambino che sognava, che vedeva l’Antica Grecia che c’era stata e che non c’era più, c’erano i baci dati a Capocolonna, le sigarette fumate di nascosto, c’era io che andavo a danza, che volevo fare il ballerino a nove anni. Quel momento, quel preciso istante in cui inizi a vedere, è un momento che io auguro a tutti gli esseri umani. 


Restare per me vuol dire e vorrà sempre dire andare via. Scappare. Non appena ho la sensazione che qualcuno mi abbia acciuffato, faccio ciao ciao con la manina e mi cerco. Nina Berberova chiama quell’attimo No Man’s Land. Per me è il mio bianco e il mio nero. Andare via è però come avere un elastico che ti riporterà per sempre a casa, e quando non hai una vera casa, devi imparare a rimanere in equilibrio. “Dove sono?” è il titolo di questo incontro e a me questa domanda mi ha sempre spaventato. Ho sempre creduto di essere nel posto sbagliato, che la vita fosse da tutt’altra parte e che io stessi perdendo tempo. In realtà, per rispondere alla domanda, non sono da nessuna parte, ma sono qui dentro di me. Sono tornato a Crotone diverse volte, per periodi brevi e lunghi. A Crotone ho scritto pezzi di quasi tutti i miei romanzi, se non romanzi interi. Ma è al restare nel futuro che guardo, e quando ci guardo, al mio futuro, vedo un bellissimo, dispettoso e a volte invisibile, quadratino grigio.

(Scritto di getto sul treno verso Torino, 12 maggio 2024)

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